I libri del 2021
Anno un po’ più coerente del 2020, sono riuscito sempre a mantenere costante la lettura di libri, con qualche buco qua e là. È stato un buon anno, ma d’altronde, sono vecchio, so cosa mi piace, e la mia lista mentale e fisica di libri oggettivamente belli è a tutti gli effetti infinita. A casa, ne ho circa 400 che devo leggere. Sarei quasi a posto per tutti i lockdown del mondo, al netto di Tommaso.
Incredibilmente, a sottolineare come siano cambiate in pochi anni le mie abitudini di lettore, sono praticamente tutti libri nuovi. Del 2021. Presi in libreria non dell’usato. A volte pure mandati dall’editore. Non mi riconosco più.
Spero che questo mi aiuti a sviluppare una “teoria” più precisa dei temi e degli stili contemporanei, teoria che mi manca completamente, se non in parte in saggistica, o nei testi più ibridi, che in un certo senso sono quelli che preferisco (i saggi veri e propri dopo un po’ stancano, i romanzi li leggo davvero poco). Sicuramente, c’è uno spostamento antropocenico, più o meno consapevole, più o meno marcato. Ma d’altronde, sono i libri che sono andato a cercare io: quelli in cui gli esseri umani non erano gli unici e indiscussi protagonisti. Ho letto più di un libro in cui la scrittura cerca di abitare spazi non umani (animali, alberi, anche rocce), scoprendo che di fatto sono quelli che preferisco. Sono anche i libri di cui ho cercato di parlare sul quotidiano Domani, quest’anno: alcune recensioni che qua magari sono brevi, di là sono lunghe.
Vita da speleo di AA.VV.
Ipoesie. Poetica dell’eresia speleoantropica di Stefano Sturloni
Una frontiera da immaginare di Andrea Gobetti
Negli abissi della terra di Michel Siffre
Il continente buio di Francesco Sauro
Come l’anno scorso, pochissime grotte quest’anno (il Buso della Rana nel vicentino, l’abisso dei Lesi nel veronese) quindi mi sono rifatto leggendo.
Vita da speleo è una piccola raccolta di memorie speleologiche, carina ma non indimenticabile, mentre Ipoesie (trovo il nome geniale) è una raccolta se possibile ancora più breve di poesie, ovviamente tutte sulle grotte. Negli abissi della terra è un vecchio libro dello speleologo francese Siffre, diventato famoso soprattutto per essere il primo “speleonauta”, cioè il primo a vivere in grotta, al buio, per due mesi consecutivi. Erano i primi esperimenti per capire come sarebbe reagito il corpo umano in condizioni estreme, come per esempio l’assenza di luce solare, molto utili per gli astronauti (che, tuttora, fanno spesso esperimenti in grotta — fra l’altro con Francesco Sauro, nominato qui sotto). Cosa divertente: scoprì che il ritmo circadiano, lasciato a sè stesso, si assestava sulle 48 ore e non sulle 24. Per cui la fine dell’esperimento lo sorprendeva sempre alcune settimane prima di quello che si aspettava.
Letterariamente, non c’è quasi nulla di davvero memorabile, ma adoro vedere come gli speleologi hanno tentato di descrivere a parole le avventure, le emozioni e gli scenari del mondo ipogeo. Anche solo da questo punto di vista, l’esperienza speleologica è un arsenale incredibile di metafore e immagini, e gli scrittori che sono anche speleologi davvero si contano sulle dita di una sola mano.
In questo senso molto preciso, il libro più bello che ho letto è stato Una frontiera da immaginare, un piccolo classico del settore. Andrea Gobetti è un personaggio davvero straordinario, e in questo libro di memorie intreccia il suo personale ’68 con la scoperta delle grotte e della montagna. Decine di avventure una più matta e irresponsabile dell’altra, e a tratti è uno scrittore vero, fatto e finito. Infatti, nei decenni, ha scritto altri libri che mi tengo sul comodino e che leggerò con calma.
Il continente buio, invece, è stato scritto da Francesco Sauro, mio coetaneo e uno degli speleologi più importanti del mondo che tutto ha fatto, che tutto ha visto, che in ogni pertugio si è infilato. Una tale serie di avventure che non sembra neanche vero. Sauro è uno speleologo e uno studioso, quindi il libro è scorrevole ma con un taglio abbastanza saggistico, nonostante racconti varie escursioni importanti svolte nei decenni, in tutto il mondo. A livello stilistico lo trovo meno ispirato di Gobetti, ma compensa con una visione molto più nitida, completa e globale della speleologia. Sull’argomento grotte, dubito possa esistere un libro migliore di questo, pure in altre lingue: peccato non lo leggerà nessuno fuori dalla sua bolla speleo, perché libri così vissuti se ne scrivono pochi.
L’altro mondo di Fabio Deotto
Ne ho parlato ampiamente qui su Domani: gran bel libro sul cambiamento climatico, nel doppio viaggio dell’autore in luoghi iconici che stanno cambiando sotto i nostri occhi (le Maldive, la Lapponia di Babbo Natale, Venezia) ma soprattutto attraverso i meccanismi mentali e cognitivi per cui il cambiamento climatico non lo capiamo e probabilmente non lo capiremo mai. Non una lettura facile — anche se è scritto molto bene — ma l’ho trovato molto lucido, e molto importante. Non sono un esperto di saggistica sul CC, ma questo è un instant classic.
Smarrimento di Richard Powers
Primo libro di Powers che leggo, mi è parso bellissimo. C’è, anche qui, il cambiamento climatico, c’è un meraviglioso rapporto padre-figlio, c’è una fantascienza delicata che apre mondi. Credo alzi l’asticella e insegni a tutti che si possa fare un romanzo molto umano e “convenzionale” eppure parlare dello zeitgast, dell’antropocene, del non umano, con un’empatia rara e con squarci immaginativi che a me hanno ricordato le Città invisibili di Calvino. Mi rimane il terrore che sia libro sulla genitorialità (sull’essere adulti bambini padri madri figli) del decennio appena iniziato.
Ne ho scritto più approfonditamente per Domani.
Le maestose rovine di Sferopoli di Michele Mari
Confesso: un po’ una delusione. Molti testi non sono il miglior Mari, e quindi a volte mi sono annoiato. Credo esista una vena mariana per me meno interessante, meno spumeggiante — anche se a distanza di tempo mi è tornata la voglia di leggere alcune pagine che la prima volta non mi sembravano nulla di che. Certo, ci sono anche pagine meravigliose che non lo fanno rimpiangere — Oniroschediasmi su tutte — e ci fanno sperare che il fuoco sia ancorà là sotto a bruciare, e che questa antologia di inediti e ripescaggi stia soltanto a coprire uno iato di tempo fino al prossimo capolavoro.
L’arte di respirare di James Nestor
Allora, tutto avrei pensato tranne che un libro sul respiro sarebbe stato quello che più mi avrebbe fatto scoppiare il cervello quest’anno. Quello che scrive è incredibile, e infatti sono stato scettico praticamente tutto il tempo. L’autore è un giornalista del NYT, Atlantic e Scientific American, e il libro ha una bibliografia di circa 400 paper, e questo fa pendere dalla sua parte: è anche uno di quegli ibridi narrativo-saggistici, con una spruzzata di memoir, con tutti i difetti di questo tipo di libri. La predilezione per gli underdog è poi sospetta. Però, dai, al netto di tutto, è un libro di cui avevo bisogno, perché racconta in un modo diverso — e a me congeniale —cose che sicuramente si dicono in posti molto molto diversi da molto molto tempo. Lo consiglio vivamente a tutti quei cartesiani un po’ scemi un po’ scientisti che hanno praticato il dualismo mente-corpo tutta la vita, come me.
Ha pure il pregio di essere riassumibile facilmente: respirare sempre e solo con il naso, respirare meno, masticare molto.
Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamìn Labatut
Che dire. Librone.
Ne ho parlato molto, ne ho scritto su Domani, ho anche riesumato il mio blog defunto per buttare giù delle idee (idee diventate poi la recensione che state leggendo qui). Anche a distanza di mesi il sapore di questo libro di Labatut permane: non un capolavoro assoluto, ma una prova solidissima di uno scrittore di razza. Più ci penso più mi rendo conto che Labatut ha fatto qualcosa di apparentemente semplice — ma che semplice decisamente non è. Ho sentito dire da più parti di come la sua prosa sia furba eppure efficace, paragonandolo ad un prestigiatore scaltro che sa il fatto suo. Sono pienamente d’accordo: il trucco c’è, tu sai che c’è, ma non lo vedi e ti frega lo stesso.
La grande furbizia del libro sta, credo, nel non spiegarti davvero niente delle idee e dei concetti che stanno sotto — della scienza, per intenderci — ma nel non farti accorgere di questa assenza. Lo stupore rimane, ed è il suo bello.
Labatut non è Rovelli. E infatti a leggerli uno prima dell’altro, come mi è capitato, Rovelli fa una pessima figura, almeno nelle prime pagine. La distanza stilistica è evidente. Eppure è ovvio che la strada di Rovelli è diversa, lui prova a raccontare e spiegare, e il suo libro Helgoland riacquista spessore ed importanza sul lungo. Finiamo Rovelli avendo capito qualcosina in più dell’universo, mentre Labatut è stato un bellissimo ma fugace sogno, siamo entrati ed usciti da un incantesimo.
Non vorrei confrontarli in una scala di valori ma mi rendo conto che comunque lo faccio, esprimo un giudizio — personale — su quello che è scienza e su quello che è letteratura, per come le vedo io. Non vorrei cadere nella trappola di pensare che quello che fa Labatut sia necessariamente più facile: la lettereratura è un mestiere difficilissimo, fatta bene.
Il punto che manterrei è che narrare e spiegare il mondo sono azioni tendenzialmente diverse. Credo ci siano rarissimi casi in cui possano convivere. Non so se sia neurologicamente sensata l’ipotesi che parlino ad emisferi diversi — e quindi è impossibile pensare ad una vera Letteratura che sia anche scientifica, nonfiction. Nella mia vita di lettore ho trovato libri che vi si avvicinavano, magari moltissimo, e in un qualche modo fallivano.
Penso per esempio al titanico sforzo di David Foster Wallace di fare un libro dei suoi — digressivo, postmoderno, pieno di note, ed allo stesso intimo e confidenziale — parlando di teoria degli insiemi. Tutto e di più è un grande libro e un grande fallimento, secondo me. Forse non per colpa sua, ma perché è impossibile l’obiettivo che si prefigge. È stato un libro che mi ha ricordato precisamente teoremi e concetti che avevo conosciuto in almeno cinque esami fra analisi e geometria. Non mi era mai capitato un libro non accademico che fosse così preciso, che cercasse di mappare esattamente il percorso che la tua mente deve fare per ca(r)pire un determinato concetto. Per di più scritto da uno dei massimi scrittori della sua generazione.
Ho sempre pensato — esagerando un po’, ma non troppo — che un libro nonfiction incandescente come poesia e avvincente come un romanzo d’avventure fosse semplicemente impossibile, uno dei pochi libri fuori dalla Biblioteca di Babele. Non ho ancora capito se ho ragione.
Helgoland di Carlo Rovelli
Di Rovelli in realtà ho già detto sopra. Comparazione di stili a parte, l’ho trovato un buon libro di divulgazione, e dico solo “buono” perché di fatto non mi sono mai cimentato davvero con la meccanica quantistica, e questa è la prima volta che ci capisco qualcosa (come se in realtà fosse davvero possibile da capirci qualcosa).
La quinta stagione, Il portale degli obelischi, Il cielo di pietra di N.K. Jemisin
Se c’è stata una vera, semplice, pura gioia narrativa nel 2021 è stata questa. Una trilogia sci-fantasy (ma non sono esperto di queste tassonomie) che ha molti elementi innovativi, almeno per un occhio inesperto come il mio. Ma il fatto che questi libri siano stati acclamati da tutti mi conforta nel giudizio.
Come spesso accade, non tutti i libri sono allo stesso livello, e il primo è indiscutibilmente il migliore, proprio nell’armonia di ogni elemento (stile, trama, struttura, tutto). Alcuni personaggi sono davvero memorabili, e il worldbuilding è solido e coerente. Mi pare che quest’ultimo aspetto via via si perda un po’ per strada. Ma avercene di cose belle da leggere così. Di quei libri che ti rendono complicato fare le cose normali tipo lavorare o dormire, perché hai solo voglia di leggere.
Compro libri, anche in grandi quantità di Giovanni Spadaccini
Questo è l’unico libro che ho prima letto su un documento Word, e che ho prima ascoltato in racconti davanti ad una birretta in piazza San Prospero a Reggio Emilia, o dentro una libreria in via Migliorati 8, che si chiama “Libri risorti” (la battezzò Antonio Moresco). È un libro geografico, per me, perché a Reggio Emilia ci vado solo per trovare Giovanni, e per girare insieme per altre librerie, in quell’attività meravigliosa che è cercare perle fra scaffali, tavoli e bancarelle. Io e Giovanni siamo diventati amici appena sono entrato nella sua libreria, e ho trovato l’autobiografia in inglese di Norbert Wiener e Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale di Simone Weil, che ancora giacciono intonsi sui miei scaffali.
Questo è un libro per coloro che sono stati colpiti dal morbo del comprare libri vecchi, libri antichi, libri rari, libri usati, libri di seconda mano, libri d’occasione, libri che vengono a voi come donati dall’universo, quando la ninfa di Serendippo ha voglia di giocare con voi e vi bacia in fronte con una prima edizione, o un libro che non pensavate neanche esistesse, o quel libro che volevate leggere a vent’anni e mai avete ritrovato. Lo comprerete felici, quel libro, e ovviamente, come me, non lo leggerete mai, oppure fra altri vent’anni, al momento giusto, che sempre arriva.
È un libro che parla di libri e di lettori che amavano i libri, e che non ci sono più, e quindi i libri lasciano casa e vanno altrove. In un’altra casa. È un libro sorprendentemente molto triste e molto divertente. Giovanni è un amico e sento questo libro un po’ anche mio, ma è bello davvero.
Letteratura assoluta di Elena Sbrojavacca
Prima monografia dedicata a Bob — come affettuosamente lo chiamava Elena: è credo, una guida imprescindibile per chi vuole affrontare l’opera in corso. L’opera di Calasso è letteralmente strutturata come un labirinto e leggere questo libro mi ha permesso, dopo anni, di capire molte cose. Ho sempre affrontato i libri di Calasso quasi da sonnambulo: li inizio e non li finisco mai, ma al contrario degli altri non mi sento in colpa, è come il mare: è sempre lì, ogni tanto, quando hai voglia, ci vai a fare un bagno.
Bobi e Memè Scianca di Roberto Calasso
Di Bob ho scritto molto quest’anno. Con gioia e riconoscenza per il compleanno, e con tristezza e riconoscenza per il funerale. Sono, credo, due delle cose migliori che ho mai scritto.
Riprendo solo questo, dal secondo:
Non riuscirò mai a capacitarmi del fatto che Calasso aveva appena vent’anni quando frequentava Bazlen. Bobi intuì in lui un genio precocissimo, e lo volle dentro il nuovo progetto che divenne poi Adelphi. Avevano quarant’anni di differenza, ma Bazlen lo trattava da pari. Morì praticamente subito, il 27 luglio del 1965, appena in tempo per vedere il primo numero della Biblioteca Adelphi, “L’altra parte” di Kubin, «il miglior Kafka prima di Kafka».
Bob & Bobi esistettero insieme in questa forma mortale per pochissimi anni, quattro, forse cinque.
Diceva Pavese nella prefazione a “Benito Cereno” di Melville, parlando del suo passato da baleniere: “Mai il mare tradisce la fantasia di Melville. È curioso come una un’esperienza durata poco più di quattro anni e conclusa quand’egli ne aveva ventisei, gli abbia invasa tutta l’anima, filtrando a interessarne le radici più segrete”. Anche quando doveva descrivere la campagna — quella in cui finì gli ultimi anni della sua vita di scrittore — Melville pensava sempre al mare: “Gli aerei bioccoli delle bocche di leone dondolano come spuma e le montagne violacee hanno il violaceo dei flutti, e un pacato meriggio dorme sui prati fondi, come bonaccia all’Equatore…”
Per Melville, non c’è nulla che non possa essere ricondotto all’oceano: è l’unica metafora, l’unico riferimento, l’unica analogia.
Bob non ha mai dimenticato Bobi: è stato il suo ultimo libro, è morto a due giorni di distanza, cinquantasei anni dopo.
Adelphi è il Moby Dick di Calasso.
Non vorrei aggiungere altro. Era il migliore, e mi mancherà molto.
Leggere di Mark Seidenberg
Libro più da consultazione che da lettura completa (per usare la terminologia anobiana), lo sto ancora leggendo saltando qualche pagina qua e là. Molto discorsivo, molto dettagliato, molto completo. Il tema è molto affascinante, ma Seidenberg ci scrive tutto quello che sa sulla lettura, e considerando che è l’oggetto della sua professione ne sa un sacco. Il risultato è che fra qualche piacioneria letteraria, una apprezzabile semplificazione e discorsività, è un libro molto lungo, e in una tale mole ci si perde un po’. Non so, a volte ho l’impressione che libri del genere sarebbero paradossalmente più leggibili se fossero più densi, ma più brevi. Proverò comunque a finirlo, mi pare un libro importante, sono cose di cui non si parla mai.
MEDUSA di Matteo De Giuli e Niccolò Porcelluzzi
Niccolò e Matteo sono amici, quindi io sono molto di parte, ma in realtà è molto facile essere onesti lodando questo libro, perché è bello davvero e perché il duo MEDUSA, negli anni, ha trovato sia una voce propria che una cifra precisa. Ho trovato la prima persona singolare geniale, perché effettivamente fluidifica la lettura e aiuta molto l’empatia. Ecco, gli argomenti non sono proprio allegri, e non si può certamente dire un libro facile; i riferimenti sono tantissimi, le scene e le citazioni si susseguono con una velocità impressionante. Sembra di aver letto un libro di trecento pagine ma sono molte meno. Ho trovato questa costruzione così rapida e ipercitazionale a volte una forzatura, a volte qualcosa di molto originale, che non avevo mai visto prima — se non, appunto, nella newsletter, da cui il libro nasce. Ma è anche vero che, in un libro, il respiro è completamente diverso.
In generale, ed è bene ribadirlo anche se scontato per coloro che seguono MEDUSA da oltre quattro anni, De Giuli e Porcelluzzi hanno creato una narrazione dell’antropocene che prima non esisteva, in italiano. L’hanno fatto ogni due mercoledì, mescolando scienza, cronaca, letteratura, poesia, memoir, ogni volta. Hanno costruito un ibrido speciale, volendo davvero che fosse ibrido. Il libro è il coronamento di questi quattro anni, e rimane coeso anche quando gli scrittori si alternano o il materiale era stato già detto o scritto, in un altra forma. Per chi non ha avuto la fortuna di leggere MEDUSA in questi anni, credo sarà una bella sorpresa.
6|5 di Alexandre Laumonier
L’ho recuperato solo adesso ma avevo il libro in lista da qualche anno. Non il titolo più famoso della collana NOT, ma mi pare un peccato: è storia, un po’ romanzata, dell’avvento dell’High Frequency Trading, cioè del vero volto della finanza mondiale degli ultimi vent’anni, territorio di guerra fra bot e algoritmi che vivono in nanosecondi, il cui concetto di tempo è sideralmente distante da noi, come il nostro lo è da quello delle montagne. Estremamente affascinante, e ben scritto. Da recuperare per guardare in faccia un pezzo di realtà nascosto agli occhi di tutti, ma assolutamente reale e dalle conseguenze molto concrete.
Nova di Fabio Bacà
Primo libro che leggo di Bacà — che, fun fact, è uno dei pochissimi narratori italiani contemporanei a riuscire a fare ben due libri consecutivi con Adelphi. Ammetto che ho apprezzato molto di più la scrittura che la storia: Bacà scrive davvero molto bene, lo stile c’è ed è indiscutibile. Me lo sono mangiato, per quel motivo, in un paio di sere. Ma quasi contro la mia volontà perchè io detesto gli slippery slope, le storie in cui so già che andrà tutto male (ho dei problemi anche coi fratelli Coen, che sono indubitabilmente geniali). Mentirei se dicessi che mi sono affezionato ai personaggi e ho apprezzato la trama — ma, ancora, mi capita molto spesso quando mi avventuro nella narrativa contemporanea, non capisco i moventi, non ho una “teoria della mente” dei protagonisti. Assolutamente non banale tenere aperto il finale, non me l’aspettavo: in generale, ecco, non è un libro prevedibile, scontato, e questo è sicuramente un grosso merito. Mi rimane la voglia di recuperare Benevolenza cosmica.
(questa recensione, assieme quella sotto, le avevo già pubblicate qui. Dovevano finire su un articolo che poi per mille motivi è saltato. Me le riciclo anche qua.)
Sei una bestia, Viskovitz di Alessandro Boffa
Sei una bestia, Viskovitz, di Alessandro Boffa, uscì in origine oltre vent’anni fa, ed è stato ricoperto di recente da Quodlibet. È un libro decisamente strano, come strano è il suo autore. Nelle pochissime informazioni che si trovano in rete, Boffa liquida in poche righe una nascita a Mosca, un passato da biologo e da neuroscienziato, una improvvisa ricchezza dovuta al gioco in borsa, una metamorfosi in un venditore di pietre preziose nelle Filippine, un successivo approdo in California.
È un uomo affascinante e misterioso, la cui sottile cattiveria traspare sia dalla bio (“ho scritto questo libro in un momento della mia vita in cui avevo smesso di tentare di essere una persona migliore, e di preoccuparmi di essere ritenuto un maiale, un insetto, un brutto bastardo”) sia, più propriamente, dalle favolacce nere e umide di Sei una bestia Viskovitz!. Il libro è composto da decine di storie, indipendenti ma anche legate, in cui il protagonista Viskovitz si incarna in mille bestie diverse — dai microbi agli insetti ai grandi mammiferi — riproponendo ciclicamente la stessa scena. C’è sempre Viskovitz, solitamente maschio e sempre in calore. C’è sempre Ljuba, solitamente femmina e in calore — tragicamente e necessariamente — solo a tratti. L’istinto sessuale è il motore di quasi tutte le storie, come l’ananke lo era nelle tragedie greche: una forza inarrestabile, un destino che rende queste storie delle piccole satire, quelle che ci si aspetterebbe da un Esopo burlone e molto cinico.
La scelta di Boffa è quella di favole amorali, viscide: un’estetica dell’invertebrato. Si notano comunque alcuni echi delle cosmicomiche calviniane, soprattutto nell’assunto di base: assumere un punto di vista impossibile, abitare per poche pagine il corpo di una lumaca ermafrodita, di una spugna di mare, di una mantide religiosa — e di farlo con un racconto. In maniera mai banale, mai consolatoria, ma sempre piena di ironia. E, credo, di antipatia per il nostro essere umani molto poco umani.
Capannone n.8 di Deb Olin Unferth
Il tono della commedia amara e tragicomica è anche quella di Capannone n°8, romanzo dell’americana Deb Olin Unferth, pubblicato da SUR. Il capannone in questione è un allevamento di galline ovaiole. Ne contiene circa centomila — un milione assieme agli altri capannoni — stipate in gabbie di poche decine di centimetri l’una, impilate fino al soffitto in una architettura distopica che è la precisa ragione economica per cui possiamo comprare un cartone da sei uova ad un’euro e mezzo al supermercato, tutto l’anno. Le galline dei capannoni verranno salvate (o quasi), in un una notte, da un gruppo di attivisti più volenterosi e arrabbiati che organizzati.
Un aspetto dell’antropocene che amiamo non vedere — uno scotoma, un punto cieco nella nostra visione del mondo e di noi stessi — è quello è l’allevamento intensivo. Unferth lascia la filosofia e gli slogan animalisti fuori dal libro, narrando la storia di un salvataggio impossibile, raccontandolo da punti di vista molteplici — fra cui quello degli uccelli. In realtà, l’autrice racconta con un’accuratezza spaventosa quanto la nostra intelligenza e la nostra tecnica siano dedicate allo sfruttamento della natura, nel modo più efficiente ed efficace possibile. Il romanzo ironico e satirico lascia dunque al lettore tutta la libertà e la responsabilità della propria riflessione, perché quella di Unsferth è fiction — ma solo fino ad un certo punto. La filiera alimentare, l’impalcatura di gabbie che si innalza fino al soffitto, le tonnellate di guano che non si possono smaltire sono tutti fatti reali, soprattutto in America, dove le leggi sono più ”flessibili” per gli allevatori, orgogliosi del loro ruolo di sfamatori del popolo.
«L’uovo è l’unità nutritiva perfetta. Proteine, vitamina b12, vitamina d. L’ideale per le ossa e per la mente. Forza e intelletto. Una dozzina di uova e il povero mangia come il ricco. Il sogno americano, Cleveland. La soluzione democratica. Aumenta il prezzo delle uova e la famiglia del povero non mangia più».
A volte, l’autrice si sofferma sul linguaggio dell’allevamento, per sottolinearne la crudeltà mascherata da burocrazia.
«Depopolamento» (leggi: sterminare le galline a centinaia di migliaia), «muta forzata» (leggi: ridurre il mangime a tal punto da farle quasi morire di fame), «debeccaggio» (leggi: tagliargli via un pezzo di faccia), «certificazione» (legittimare, anzi prescrivere, tutta un’altra serie di atrocità), «Associazione Nazionale Produttori di Uova» (il gruppo di maschi bianchi sulla cinquantina a capo di tutta la baracca).”
Sembra quasi di sentire la neolingua del Grande Fratello di George Orwell. A proposito di satire su umani e animali.
Nessun cielo di Pierre Demarty
Libro di un paio di anni fa, di cui non ha parlato nessuno, e non capisco il perché. L’immagine (proprio, la fotografia) da cui parte è sepolta nel cervello di ognuno di noi, e nonostante la narrazione parta a cento all’ora e non si abbassi mai l’ho trovato un libro a suo modo importante, con delle imperfezioni, sicuramente, ma con una suo potenza, una sua legittimità nel provare a fare quello che stava facendo. Anche se il risultato non è stato perfetto, non è forse degno di lode scrivere — di fatto — il libro su una fotografia che tutti abbiamo visto e tutti, subito, abbiamo cercato di dimenticare e cancellare con le unghie dalle nostre retine?
Per un umanesimo scientifico di Giulia Boringhieri
Libro che inseguivo da molto tempo, dopo averlo scoperto per caso in una libreria tanti anni fa. Ho sempre provato molta simpatia per le edizioni Boringhieri, e sono sempre affascinato dalle biografie di editori e case editrici. I temi trattati sono — purtroppo — sempre molto attuali. È un saggio fatto e finito, una minuziosissima costruzione delle Edizioni Scientifiche Einaudi prima e delle Bollati Boringhieri poi. Per una volta, non sentiamo parlare soltanto di Pavese Vittorini Calvino, la sacra trinità einaudiana, ma anche di Giulio Einaudi stesso, Felice Balbo, Ernesto di Martino, Cesare Musatti, Lucio Lombardo Radice, Ludovico Geymonat, Massimiliano Aloisi, Giulio Bollati, Luciano Foà e, ovviamente, Paolo Boringhieri. Essendo narrato dalla figlia di Boringhieri, c’è spazio, raramente, per momenti di affetto, che rendono il libro ancora più prezioso. Leggendolo, ho capito meglio alcune cose che magari leggendo gli epistolari einaudiani della trinità vengono sono meno evidenti, come la situazione politica, le fazioni filosofiche, i conflitti fra idee e ideologie: c’è tutto il caso Lysenko, il materialismo dialettico che voleva mangiarsi anche il metodo scientifico, l’ombra culturale sovietica. Direi che è un libro per addetti ai lavori — cosa che io, fra l’altro, non sono — se non che la storia editoriale italiana del Novecento è per me un argomento inesauribile e bellissimo, avercene di libri così.
Lessico famigliare di Natalia Ginzburg
Colpevolissima lacuna recuperata solo negli ultimi giorni dicembrini, dato che va di passo con Per un umanesimo scientifico, che lo cita continuamente. E dato che erano anni che mi guardava dallo scaffale, invitante e leggero con la sua costa così sottile. Ammetto che lo stile così asciutto mi ha stupito: solo a sprazzi la Ginzburg si lascia andare un po’, sia come emozioni e come scrittura, e lo stile sboccia come fiori in un terreno brullo. Forse a leggerlo a sessant’anni di distanza è molto diverso. Ammetto che sentire tutte quelle esclamazioni, tutte quelle ripetizioni fa sembrare tutti — soprattutto i genitori — ritratti come fossero idioti. L’affetto è trasparente, fra le righe, emerge solo a tratti.
Le labrene di Tommaso Landolfi
Il mio primo libro di Landolfi, non credo sia stata una buona scelta. C’è una misoginia disturbante — più dell’epoca che dell’autore, mi pare — e ammetto che sentire parlare così spesso di botte alle mogli mi ha fatto dimenticare la sua penna, che è indubitabilmente speciale. Riproverò con un altro.
Logica matematica di Abraham Robinson
Libro che ho iniziato a leggere con grande entusiasmo e poi ho definitivamente abbandonato per mesi, ma ho voglia di riprenderlo in mano. Fariseismo a parte, non credo sia neanche colpa sua: Robinson — fra le altre cose, inventore dell’annalisi non standard — è certamente uno che ha dei numeri (ahah, capita? capita?) e lo stile non è neanche troppo arido, ma forse non era il periodo, chissà.
I demoni di Gödel di Pierre Cassou-Noguès
Libro su cui avevo enormi aspettative, ma piuttosto deludente. C’è un approccio filosofico e psicologico un po’ troppo minuzioso per le mie competenze, o la mia pazienza, e lo stile non aiuta. È un libro molto lento, che vorrebbe essere più divulgativo di quello che purtroppo riesce a fare. Ma ha avuto il pregio di farmi vedere Gödel sotto una luce completamente nuova. Era mooolto più bizzarro di quanto sapevo. Anche questo spero di finirlo, prima o poi.
Non avevo mai letto nulla di Trevisani, e ho sbagliato io, perché mi pare veramente uno scrittore fatto e finito, uno che sa abitare un luogo abbastanza da filtrare attraverso la pelle, per osmosi, tutte le metafore, tutte le immagini, tutte le frasi che servono a restituire quel luogo, a farlo percepire. Questo è un libro sulla memoria, il sangue, la genealogia, e si vede che sono argomenti che Trevisani ha a lungo ricercato e a lungo patito. Quando questa cosa succede — quando c’è un sacrificio, e il libro è solo un resto del sacrificio — i libri vengono bene per forza, sono unici, come diceva Bazlen. Qui è accaduto.
Aggiungo solo una cosa: ci sono forse le più belle parole sull’essere padri che io abbia letto in questi anni. Non lo dico alla leggera, perché anche io, nel mio piccolissimo, ci ho provato. Lui invece ci è riuscito.
«Oggi annego dentro di lei e faccio un figlio che sia mio.»
Non siamo che alberi di Filippo Ferrantini
Altro libro di cui non ha parlato nessuno, ed è davvero un peccato. Lo trovo un piccolo gioiellino, a tratti commovente. Non sono altro che ritratti di alberi, di poche pagine l’uno, eppure scritti con un amore infinito e una conoscenza precisa, scientifica, decennale, poi trasfigurata in una lingua dolce, un toscano buffo e forbito e adorabile. Non capitano spesso i libri in cui questa magia accade. Libro di poche parole ben spese, per cui anche la recensione finisce qui.
Tre orfani di Giorgio Vasta
Raccontino minimo, eppure tanto bello, che ricorda quel capolavoro in forma breve che è Otto scrittori di Michele Mari. C’è Achab, che segue i marosi con il dito sopra un tavolo di marmo, e c’è un adorabile Bartleby in chiave moderna, che cancella tutti i numeri dalla rubrica del cellulare, uno ad uno. Bello Vasta, bravo Vasta, ancora Vasta.
Spaesamento di Giorgio Vasta
Senza verso di Emanuele Trevi
Metto insieme questi libri: perché la loro prosa è speciale e difficile, perché non li ho finiti, perchè sono libri sul perdersi, perché sono libri su una città (Palermo, Roma). Perché — mi accorgo ora — sono della stessa collana Laterza di un po’ di anni fa. Trevi e Vasta sono fra i due maggiori scrittori contemporanei italiani, il loro stile è diverso ma in entrambi esplode la letteratura, sono di quelli che leggi senza interessarti della trama, per il puro piacere di leggere frasi, di sentirle rimbalzare nella tua testa. Al contrario di altri, non è che mi dispiaccia non finirli: significa che posso sempre riprenderli dopo, allungare il godimento. Spaesamento è pieno di un’accidia e una solitudine che Senza verso non ha: Trevi pare sempre più ancorato alle sue amicizie e alla sua città (Roma) di quanto Vasta non sia, apolide in ogni luogo. Magari dico così perché di Trevi ho letto anche — e solo — Due vite e di Vasta anche — e solo — Absolutely nothing, ma non credo proprio di sbagliarmi. Sono certo che si conoscano, sarebbe bello starli a sentire chiacchierare.
Le civette impossibili di Brian Phillips
Se n’è parlato molto bene, e in effetti alcune storia di questa raccolta sono davvero indimenticabili (il campionato di slitte in Alaska, la storia del campione di sumo Hakuho). L’avevo iniziato con grande entusiasmo a gennaio per poi lasciarlo sul comodino, dove è finito via via sepolto da altri libri. Ho paura che non tutti i pezzi siano all’altezza dei migliori, ma io a volte mi stanco di leggere senza un motivo apparente, per cui non fidatevi di me, credo che in questo caso sarebbe piuttosto ingeneroso.
È molto importante leggere almeno una Collana dei Casi Adelphi l’anno, contento di aver mantenuto viva la tradizione.
Io e Mabel di Helen MacDonald
Qualche anno fa ho letto L’astore di White, e mi aveva folgorato. È un libro di una violenza incredibile, quasi scritto di penne, piume e artigli, con uno stile perfetto per la storia che racconta. Da allora, ho sognato di concludere quella che mi piace chiamare “la trilogia rapace”: L’astore, Il falco pellegrino di Baker, Io e Mabel di MacDonald. Me ne manca solo uno, ma non ho nessuna fretta: sono già dispiaciuto di averli finiti.
Su Io e Mabel avevo aspettative, giustamente ripagate. Meno lirico e ispirato nella scrittura di White, ha il pregio di mettere in ordine le idee sulla falconeria che con L’astore erano state tremendamente traviate, come uno che impari tutto quello che sa sulle balene da Moby Dick. Il rapporto fra Helen e Mabel è sicuramente più sano — per entrambi — ma fino ad un certo punto: il libro non fa che dimostrare ancora una volta come sia fragile l’amicizia che si può creare fra creature così diverse come un falco e un essere umano, una parentesi, una bolla di sapone che può scoppiare all’improvviso. È una finestra su un mondo davvero altro, alieno: che cosa c’è dietro il nero lucido degli occhi di un falco? Niente che davvero possiamo comprendere. Fame, voglia di volare, sete di uccidere: uno spazio piccolo e insieme enorme di cui noi umani non possiamo dire niente.