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W, o della cattiveria

7 min readMar 4, 2025

Si esce dalla visione di “Wanna” — il documentario su Netflix — decisamente frastornati, suonati come dei pugili scarsi al primo combattimento. Credo che l’effetto sia dato dal doppio movimento, simmetrico e contrario: la vicinanza assoluta dei fatti (spaziale, temporale) e la loro assoluta incredibilità. Uno, due, tappeto. Le domande che turbinano nella mente sono decisamente troppe, sia rivolte a lei che ai suoi “clienti”: perché la Marchi ha fatto quello che ha fatto? Come ha fatto la gente a crederci? Come hanno fatto a spendere tutti quei milioni?

La meccanica dei fatti criminali è d’una semplicità talmente minimale da risultare inverosimile: Wanna Marchi, già regina delle televendite, nella seconda parte della sua carriera ha venduto bustine di sale per l’ammontare di 64 miliardi delle vecchie lire: miliardo più, miliardo meno.

È una lettura parziale, certo, ma credo che allo stesso tempo non sia lontana dalla verità che le Marchi raccontano a sé stesse. Fottere per non essere fottuti, come fossimo nella giungla o in universo amorale in cui Ozzano dell’Emilia è il centro di un provincia postapocalittica, Wanna come Tina Turner, la regina di Mad Max 3. Acconciatura e W ritornano.

Ma non si diventa il villain della storia dall’oggi al domani. Ci vuole del tempo. Già gli elementi della tragedia greca si confondono con quelli della commedia all’italiana.

Innanzitutto, le origini povere, contadine: Vanna Marchi (ancora con la V) nasce a Castel Guelfo di Bologna il 2 settembre 1942. Giovanissima, conosce un ragazzo — Raimondo Nobile — se ne innamora, si sposa giovanissima, a soli diciotto anni. I genitori di lui, più agiati, ostacolano il matrimonio, ma i ragazzi sono decisi. All’uscita dalla chiesa, la suocera dirà a Wanna, “Come sei brutta…” Tre parole di una cattiveria meschina e crudele. Tre parole che avrebbero rovinato la vita della maggior parte di noi, figuriamoci di una umile sposina di provincia nell’Italia del 1961. Nobile, che faceva il rappresentante di un liquore, si rivelerà poi un marito molto mediocre: frequentissimi i tradimenti, pochissimi i soldi portati a casa, tante le botte date durante i litigi con la moglie.

Vanna dunque cerca indipendenza, anche economica, e per farlo accetta molti lavori, come anche truccare i defunti alla camera mortuaria di Bologna. Inizia a lavorare come estetista nei negozi dei parrucchieri: “In quei momenti, sei come un confessore. Assorbi, ascolti, impari.” dice. “Non è poi così difficile”.

Fosse un cattivo di Batman, l’origin story di Wanna Marchi potrebbe stare già tutta qui.

Per la trasformazione completa in “cattivo” però ci vuole un segno distintivo, un simbolo, una firma: come Joker ha il suo sorriso, la giovane Vanna trova la W.

Wanna diventa l’alter ego malvagio di Vanna, come Heisenberg lo è di Walter White in Breaking Bad (“W” era il titolo di un libro di Georges Perec, un gioco di parole: W, in francese, è “double vé/vie”: doppia vu, doppia vita).

Wanna inizia la sua carriera televisiva in sordina, ma il suo talento indiscusso viene fuori immediatamente. Il risentimento è una motivazione di una forza enorme, implacabile: funzionano così egualmente per Ibrahimovic e Wanna Marchi. Entrambi, facciamo notare, parlano di sé in terza persona.

La prima Wanna è, fenomenologicamente, già pienamente Wanna: le urla, il “D’accordo!?!”, la guerra al lardo. Come criminale, è invece ancora una truffatrice all’acqua di rose, vendendo modeste pomate come fossero miracolosi “scioglipancia”. La sua cattiveria fa però già impressione, a distanza di vent’anni, e noi fini psicologi da tastiera che abbiamo letto cinque pagine di Freud non possiamo che leggerci un transfert da manuale. Wanna è spietata con la bruttezza e la grassezza, non solo altrui. Si presenta da Maurizio Costanzo con venti chili di meno. La sua somiglianza con Medusa della Sirenetta è così lampante che all’epoca spaventava tutti noi bambini degli anni ’90, e ancora ci spaventa oggi.

Nel frattempo, avviene un’altra trasformazione: forse senza quasi rendersene conto, Wanna come Crono fagocita Stefania, figlia che risulterà poi indistinguibile dalla madre (l’unico, fugace momento di pentimento registrato nel documentario, Wanna lo dedica infatti alla figlia: “Spero che mi abbia perdonato”).

Con Stefania già ventenne la trasformazione è completa, il cattivo è finalmente compiuto. Le Marchi sono diventate una cosa sola, una creatura mitologica metà madre metà figlia, il mostro bifronte Wanna/Stefania. Lo stesso genetico volto invecchiato da una parte e ringiovanito dall’altra.

La loro intelligenza, la loro crudeltà è simmetrica e complementare. Wanna ha un magnetismo televisivo leggendario, non le si può staccare gli occhi di dosso: si potrebbe osservarla per ore, come un abisso. Ma nell’economia della ditta non è che l’esca: il polso del pescatore esperto è tutto di Stefania. È lei che pesca, uccide, poi cucina la cena per tutta la famiglia.

Wanna ha la violenza verbale del tenente di Full Metal Jacket, la gola più allenata di un cantante death metal: urla tutto il giorno, tutti i giorni. Stefania cresce nel negozio e nel negotium della madre, impara giovanissima; di suo, ci mette un intuito psicologico finissimo, sa rigirare il cliente, ha talento per i nomi: “scioglipancia” e “maestro di vita”, fra gli altri, sono suoi.

La storia che stiamo raccontando non ha eroi, ma solo cattivi: Wanna/Stefania si incontrano e scontrano con personaggi leggendari, come la dolce e dimessa Milva Magliano, che ha contatti con la camorra e di cui tutti, criminali e carabinieri, paiono avere paura; o il misteriosissimo Marchese Attilio Capra De Carrè, iscritto alla loggia P2, con amicizie innumerevoli, fra cui Dell’Ultri e Berlusconi.

E qui parte la seconda parte della loro carriera, molto meno divertente della prima, meno comica e più tragica. La trasformazione nel “mostro” Wanna/Stefania è già completata. Si abbandona la guerra al lardo, si tenta qualcosa di molto più ambizioso.

Tramite il “Maestro di vita” do Nascimiento — un giovane cameriere brasiliano trovato a servire la cena scalzo in casa del Marchese De Carrè — Wanna/Stefania crea il suo capolavoro, che poi non è altro che il Sacro Graal di ogni venditore, il gesto zen perfetto, come quello di un calligrafo cinese: vendere, a carissimo prezzo, il niente.

Dirà l’avvocato difensore: “Wanna Marchi, in cuor suo, si sentiva innocente: lei era convinta di essere diventata così brava da poter vendere anche la fortuna. Cioè il nulla. Vendo beni che hanno valore intrinseco sempre minore e li vendo ad un prezzo sempre maggiore. Tanto la differenza la faccio io venditrice. Io, Wanna Marchi”.

Agli occhi di Wanna/Stefania, questa è la giusta punizione per i “coglioni” (verbatim), che in quanto “coglioni” devono essere bastonati. Homo homini lupus. Agli occhi del mondo, diventerà “associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata”.

Grazie ad una “cliente” coraggiosa e furba che fiuta la truffa e contatta Striscia la notizia, i microfoni e le telecamere riprendono Stefania che le urla al telefono cattiverie irricevibili.

La polemica è tale che finiscono su tutti i telegiornali, Striscia fa share da capogiro, la finanza finalmente inizia ad indagare. Finiscono sottoprocesso, e, come sempre, Wanna/Stefania scelgono di giocarsi il tutto e per tutto: nessuno sconto di pena, porte aperte e telecamere in aula a seguire ogni secondo del processo, che diventa un evento mediatico senza precedenti.

Per la prima volta in questa tragicommedia greco-italiana — come sottolineato da molti nel documentario — la televisione da alleata diventa la nemesi delle Marchi: Wanna/Stefania hanno sempre vissuto sotto le telecamere, sono convinte di giocare in casa, di nuotare nel loro elemento. Ma le cose andranno in altro modo. “Io pensavo di poter gestire il mio processo” dirà poi Stefania. “Ho peccato di presunzione. Questa è stata la mia colpa più grande”. Fra tutte le colpe, sceglie questa.

La puntata dedicata alle vittime di Wanna/Stefania spegne un po’ il sorriso inevitabile delle prime puntate. La tragicommedia, in questo senso, perde ogni lato comico. L’incredulità (dello spettatore) sull’ignoranza (delle vittime) delle più basilari reazioni chimiche (il sale che non si scioglie nell’acqua perché è troppo, la soluzione è troppo satura) lascia spazio allo sgomento, all’angoscia.

Le storie dei clienti truffati fanno accapponare la pelle: gente che, sotto la minaccia del malocchio, la paura di un incidente, della morte del figlio o del marito, vende i gioielli, si indebita, prosciuga i conti dei parenti, getta milioni di lire ai piedi del mostro Wanna/Stefania affinché allontanino la sfortuna. Famiglie intere sono distrutte da questo abisso di disperazione e bugie, degno del Romand descritto da Carrère ne L’avversario. Castelli di menzogne che inevitabilmente crolleranno lasciando solo macerie. Alcuni confesseranno che non si sono ammazzati per semplice codardia.

Non si sa quanti clienti truffati non si siano costituiti parte civile per vergogna. Pare che la cifra totale delle truffe si aggiri sui 60 miliardi di lire.

Il volto simmetrico di Wanna/Stefania, al processo ma anche dopo la galera, è una sfinge di pietra.

Per loro, non ci sono “vittime”, perché la vittima presuppone un carnefice, una colpa. Loro non hanno colpa. Se sei vittima è colpa tua: sei quindi tu il colpevole, di essere vittima. Il mondo è uccidere o essere uccisi. Ogni empatia è impossibile.

È un momento importante, nel documentario: tolto via il grottesco, il folklore, il trash, il camp, il cringe, rimane quello sguardo predatore, la sociopatia di chi è incapace di percepire il dolore dell’altro, ma solo sentire il proprio.

A tratti, lungo l’intervista, ci sono brevissimi attimi in cui le maschere di Wanna — meno quella di Stefania — sembrano vacillare. Delle crepe in cui pare entrare uno spiraglio di luce. Ma durano un istante, e forse sono solo un’illusione ottica: Wanna e Stefania si ricompongono, si riuniscono insieme, unite e sole, irremovibili contro un mondo che le odia, e che loro odiano in risposta.

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Andrea Zanni
Andrea Zanni

Written by Andrea Zanni

Digital librarian, former president of Wikimedia Italia. I work with books and metadata.

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