I libri del 2023
Andiamo subito al punto: tutto il pippone dell’anno “strano” e della sensazione sisifea di ricevere troppi libri e di non avere abbastanza tempo e di essere schiacciato dalla bellezza l’ho già scritto l’anno scorso. Quest’anno mi pare ancora più evidente il monopolio adelphiano: praticamente tutti — e tutti nuovi — tranne un paio. Nel 2024 spero di fare meglio.
Paura della matematica, Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron
Cameron era in tour, quest’anno, per cui ho letto Paura della matematica, vari racconti di Che cosa fa la gente tutto il giorno? e ovviamente il suo libro più amato, Un giorno questo dolore ti sarà utile, titolo che va benissimo da sempre ma negli ultimi due anni soprattutto grazie alla comunità di lettori di TikTok.
L’ho trovato un libro particolarmente tenero, un romanzo di formazione pulito, semplice ma non troppo, sincero e chiaro. Tutti aggettivi che non sembrano adatti ad un “culto”, ma invece è proprio così: Cameron ha un modo tutto suo di essere sincero sulla pagina, e per questa sua sincerità il lettore italiano lo ripaga con amore incondizionato. Devo dire che mi ha colpito, ai festival e agli eventi, vedere le file lunghissime per i firmacopie, e i sorrisi sulla faccia dei lettori, e anche qualche lacrimuccia. Una relazione sana, una volta tanto, senza le disfunzionalità tipiche di un certo di divismo letterario. Grande stima per Peter.
La Brigata dei bastardi di Sam Kean
Ripreso in mano dall’anno scorso, giusto giusto per la visione di Oppenheimer. Non è la stessa storia, ma la parallela avventura per scoprire quanto i Nazisti fossero avanti con la costruzione della bomba atomica. Fra giocatori professionisti di baseball diventati spie e altri personaggi improbabili, ritroviamo lo stesso Oppenheimer, il celebre interrogatorio con Pash, il generale Groves, i fisici ancora sparpagliati per l’Europa a fare esperimenti negli scantinati. Manca, nel libro come nel film, come un buco nero che non mi so spiegare, John Von Neumann, (ma il buco nero è stato esplorato per fortuna da Labatut).
Se c’è una cosa interessante è che libro e film trattano l’incredibile e polifonica storia in maniera “veloce”, sincopata, ed entrambi appunto ti lasciano appunto la sensazione del trailer, della suggestione: un po’ specchio dei tempi e di come fruiamo delle storie, un po’ modalità furba ma a suo modo onesta di trattare una storia che è per necessità collettiva, la storia di una delle più incredibili collaborazioni scientifiche e militari del mondo moderno. Il film sta letteralmente attaccato al viso di Oppenheimer — e Murphy è bravissimo, lo regge tutto — come ancora di salvezza nel turbine delle storie e della Storia; il libro si permette di abbracciare la molteplicità e la velocità con capitoli brevi e fulminanti.
Junky di William Burroughs
Ogni tanto mi chiedo cosa ci faccia Burroughs dentro il catalogo adelphi, ma in realtà ha perfettamente il suo posto, anche solo per la bazleniana primavoltità di certi suoi libri: chi, prima di lui, aveva scritto un libro del genere? Allegra discesa agli inferi del nostro, al suo primo vero romanzo — che in Italia conoscevamo già con il titolo “La scimmia sulla schiena”. Crudo, esplicito, divertente, è un romanzo ovviamente pieno di droga, e tutto quello che ci gira intorno: le persone, i dolori, le miserie, i soldi. Solito linguaggio fra il medico e l’allucinato, qui forse all’apice dell’asciuttezza e della chiarezza. Un libro pazzesco, in cui speri sempre che quello che leggi sia inventato, e con un brivido ti rispondi che no, è probabilmente tutto vero. Per Burroughs la redenzione non esiste, e probabilmente la cosa lo divertiva molto. Copertina particolarmente azzeccata, secondo me.
Non c’è scrittrice più violenta di Fleur Jaeggy. Ogni storia ha il suo mattatoio, il suo animale morto, la sua carne nel piatto. Tutto è incredibilmente vecchio, infetto. È il tempo di Qohelet, dove tutto è già stato, nulla di nuovo può accadere. La morte contamina ogni cosa, mentre spira il favonio, che rende docilmente pazzi. Non c’è scrittrice più violenta di Fleur Jaeggy.
Gentiluomo in mare di Herbert Clyde Lewis
Chicca dell’anno, lo associo a Memorie di un baro (per il suo essere un piccolo gioiello, per il resto non c’entra nulla). Piccolo libretto sconosciuto e ripescato, di uno sfortunato scrittore morto in disgrazia, e che della disgrazia parla qui in maniera leggera e divertente: ma sempre di disgrazia si tratta. È uno di quei libri dall’idea semplice e geniale, ma dall’esecuzione complicata. Si legge in poche ore, ma il ricordo dura di più.
Delitto impunito, L’orsacchiotto di Georges Simenon
Ho preferito più il secondo al primo, ma inizio a capire chi si fa irretire dalla malìa simenoniana, da chi si fa prendere dalla febbre. Mi ricorda un po’ come quando andavo al Gelatauro di Bologna — che è poi la migliore gelateria del mondo, non accetto discussioni — e prendevo i gusti “cioccolato all’arancia” e “cannolo siciliano”, e ogni volta era riassaporare i due gusti e ritrovare sempre la stessa meravigliosa sensazione. La gioia della reliability, del ritrovare sempre la stessa comfort zone. Forse non dissimile da quanto i bimbi provano nel sentire sempre le stesse storie. Che nel caso di Simenon le storie siano diverse ma di fatto sempre la stessa storia di cupio dissolvi, di piano inclinato verso il basso, e che il comfort sia discomfort, è altrettanto interessante.
Che libri del genere, densi di frasi illuminanti e nitide e levigate, con una sua solidità di ambiente e psicologia e personaggi, siano stati scritto in una manciata di settimane è abbastanza incredibile. Non sono tanti gli autori maratoneti, quelli che si vedono sul lungo, sulla quantità. Siamo più abituati ai velocisti, un paio di libri geniali e via. O cinque sei buoni o molto buoni. Altra disciplina qui: cento, duecento libri, a questo livello? Il dubbio è che siamo noi a non saper leggere abbastanza velocemente da poter riconoscere quanto grande sia uno scrittore del genere.
MANIAC di Benjamín Labatut
Avevo molto da dire su questo libro ma l’ho già fatto, qui: per me, personalmente, il libro dell’anno.
V13 di Emmanuel Carrère
Ho scritto “libro dell’anno” e ovviamente ho dovuto tirare fuori anche questo, che per me è l’unico altro contendente al titolo, non me ne voglia Cèline.
Leggendo questo libro ho pianto due volte, a metà e alla fine (non a caso, in entrambi i casi c’entrava Nadia, una delle persone più straordinarie incontrate in queste pagine). Libro che ho letto in una giornata scarsa, tremendo e bellissimo, in entrambi le direzioni oltre le mie aspettative. Un Carrère molto più nascosto del solito, mi verrebbe da dire quasi pienamente “al servizio” di qualcosa (un evento, un rito, ciò che chiamiamo “giustizia”) enormemente più grande di lui. Azzarderei ancora dire che sia un libro necessario, e che se fossi in lui, Carrère, fra venti, trent’anni, uno dei libri che sarei davvero contento di aver scritto. Contento di aver messo talento e migliaia di ore di vita e di lavoro a servizio di un progetto del genere. Una dimensione collettiva che non avevo trovato in molti altri suoi libri: per alcuni troppo reportage giornalistico (cosa che in effetti è), per altri mancante di quell”orribile narcisismo” che è la vera cifra e droga carreriana, che tutti ricerchiamo. Un libro con qualche imperfezione, sicuramente, ma che a conti fatti rimane solidissimo, e rimane un pezzo di bravura, un documento di giornalismo a cospetto della Storia, e che alla Storia, secondo me, passerà.
I volti dell’ombra di Pierre Boileau e Thomas Narcejac
Primo libro che leggo della diabolica coppia che tanto piaceva a Hitchcock, e non delude. Thriller buio e paranoico, in cui il protagonista, diventato cieco, inizia a percepire una congiura ai suoi danni. Ben scritto, ben eseguito, mantiene alta la tensione e il conflitto fra realtà e delirio, fino all’ultimo.
L’eternità viene dagli astri di Auguste Blanqui
In realtà, fra le chicche dell’anno questo forse vince il bazlenino d’oro. Libro unico per eccellenza, scritto da un rivoluzionario francese costretto tutta la sua vita fra le mura di una prigione, unico detenuto in un’isoletta in cui gli impedivano di stare vicino alla finestrella per “non vedere il mare”. Blanqui il mare però se lo immagina da solo, e come opera-testamento non scrive un pamphlet politico ma uno splendido delirio fisico-astronomico che prefigura l’eterno ritorno nicciano e il multiverso eslporato nella fiction in questi ultimi anni, meno Marvel e più il Garland di Devs. Dal punto di vista scientifico un delirio, da quello filosofico un sogno-incubo che non a caso influenzerà Borges e Bioy Casares, Nietzsche e Benjamin.
Exmachina di Valerio Mattioli
Non so quanti fra gli scrittori italiani coltivino le proprie ossessioni come Valerio Mattioli. Certo, ci sono Mari e i suoi demoni, ma qui giochiamo ad un altro sport. Non solo in termini di lingua (non me ne voglia l’autore r̶o̶m̶ remoriano) ma proprio in termini di forma generale. Quando Mari scrive nuota nel grande oceano della narrativa, scrive storie e si basa su storie. Ogni sua incursione nella nonfiction è o saggio accademico (arido e illeggibile) o recensione (e quindi erigere statue e memoriali ai propri idoli, alla propria memoria, alla propria nostalgia, a quello che la narrativa ti dona, quando sei bambino. Tutto in Mari è disperato ritorno all’infanzia, struggimento del nostos). Campo del Mattioli è invece la nonfiction, ma laterale, finzionale. Falsa. Quella del Mattioli è poetica della paranoia, cioè rilettura (chimicamente) alterata della realtà. Parafrasando Borges, “gli argomenti di Mattioli non ammettono la minima confutazione e non suscitano la minima convinzione”. I temi sono quelli: lo stato alterato della coscienza, l’allucinazione, la musica come viatico dentro -> fuori, ma anche fuori -> dentro. I Grandi Antichi che trovano un passaggio verso il nostro mondo. La Tecnologia come Grande Antico, altro nome di Chtuluh. Succedeva in Remoria, succede anche in questo Exmachina, un delirio — leggibilissimo, quasi un page turner — di oltre 350 pagine. Letto con le cuffie e ascoltando le miriadi di tracce citate, diventa un’opera multimediale, che penetra nei sogni, come d’altronde vuole fare dalla prima pagina. Io ostinatamente preferisco il Mattioli imbrigliato nella non fiction pura (nei paratesti, negli articoli dettagliatissimi per ilTascabile) dove la forma-articolo ne argina l’evidente compiacimento stilistico, dove si nota il piglio del nerd, dell’ossesso, ma anche la penna e la struttura dello scrittore consumato. Ma sono dettagli: chi è capace di scrivere un libro del genere su una corrente musicale che ha definito gli ultimi trent’anni? Un libro incredibilmente falso e allo stesso tempo vero, una pareidolia, una apofenia? C’è da augurarsi che Mattioli continui a coltivare le proprie ossessioni — l’urbanistica, la musica — e ci regali il terzo capitolo di questa “trilogia della paranoia” che, al momento, che io sappia, non trova equivalenti nelle patrie lettere.
L’ultima cosa bella sulla faccia della terra di Michael Bible
Una sorpresa, questo Bible. Un libro che ho letto in un pomeriggio direttamente dalla bozza nel file WORD, e lo dico come complimento. Si beve d’un fiato e brucia che è un piacere. Molto consigliato, mi fa piacere sia finito in varie liste dei libri dell’anno.
Giochi proibiti di François Boyer
Libro tristissimo, mi ha ricordato Génie la matta per lo stesso approccio fiabesco — e violentissimo — all’infanzia. Là la crudeltà degli uomini, qui più la crudeltà impersonale della guerra, della natura, della campagna. Un affresco della Francia rurale di inizio novecento, senza nessuna speranza.
La sequestrata di Poitiers di André Gide e Haarmann di Theodor Lessing
Ne parlo insieme perché li ho letti insieme, con lo scopo preciso di esplorare dei cosiddetti truecrime, genere su cui sto facendo delle riflessioni professionali. La sequestrata di Poitiers è una perla nera, si legge nel tempo di trattenere il respiro, leggendo una storia incredibile sull’orribile reclusione di una giovane ragazza. Basterebbe questo, come cronaca nera, e invece da subito sorge il dubbio che la reclusione fosse in realtà un’autoreclusione… e l’inquietudine raddoppia. La frase: «Tutto quello che vorrete, ma non portatemi via dalla mia cara piccola grotta» vale praticamente da sola la lettura.
Haarmann è un titolo che avevo adocchiato più di un decennio fa, con la morbosa curiosità di vedere un libro sui serial killer nel catalogo Adelphi. Il libro non delude, anche se non siamo certo dalle parti liriche e letterarie dell’Avversario di Carrère. Haarmann è un cattivo rozzo, stupido, molto meno diabolico e sottile di Romand. Quella che è più diabolica, come apprezzato da Calasso ai tempi, è la società tedesca protonazista ritratta in filigrana: una società allo sfascio morale, omertosa e rinchiusa su sè stessa: Haarmann compie i suoi delitti come informatore della polizia, senza che nessuno, pare, sospetti nulla, senza che decine di giovani ragazzi da lui ospitati destino il minimo sospetto… Lessing, che si spese moltissimo per fare luce sul caso, venne addirittura allontanato dal processo, dato che i suoi articoli mettevano in luce la complicità o quantomeno la stupidità della polizia prima e del tribunale dopo. Erano i primi anni ’20, in Germania.
Max e Flora di Isaac Bashevis Singer
Il mio primo Singer, direi. Mi è piaciuto — nonostante abbia trovato il protagonista troppo perturbante per i miei gusti, e troppo poco “discusso” dal suo stesso narratore. Quello che mi è piaciuto, però, è la velocità con cui si svolge, il mestiere di Singer di far giocolare questi personaggi larger-than-life, metterli come biglie dentro un pista di sua creazione e poi farli correre all’impazzata. Noi ci godiamo la scena, da fuori, con la gioia serena di chi si legge un feuilleton, di chi si guarda lo spettacolo dalla poltrona di casa. Sono curioso di leggerne altri.
Guerra di Cèline
Io e Cèline non siamo amici, anche se mi rendo perfettamente conto che un problema mio e lui si sarebbe fatto una grassa risata alle mie difficoltà. Alcune pagine di questo Guerra davvero valgono il libro, e non si può dire per tutti. La grandezza si percepisce anche dalla distanza — come d’altronde mi capita con Bernhard. Allo stesso modo, non continua a non essere la mia tazza di tè. Sono contento di averlo letto e sicuramente riproverò, ormai per la sesta volta, ad andare oltre a pagina 10 del Viaggio. Ma non nutro grandi speranze.
DUNE di Frank Herbert
Che dire di Dune, che non sia già stato detto? Nulla, e infatti non dirò niente. Un libro talmente seminale (qui una cosa che ho scritto su un aspetto relativamente piccolo del worldbuilding) da essere un po’ tristi di averlo letto a quarant’anni, e non quattordici, ma va bene così. Proverò a leggere il Messia, prima di marzo, magari.
Vera gioia è vestita di dolore di Anna Maria Ortese
Piccolo delizioso epistolario ortesiano, che mi ha colpito per la sua — per me — somiglianza e affinità con Cristina Campo. Mi sono praticamente immaginato tutto, ma ne è venuta fuori, credo, una bella intervista alla curatrice Monica Farnetti, quindi sono contento. Sul Tascabile.
Un mondo senza confini di William Atkins
Sono arrivato a metà, è ancora qui sul mio comodino, e mi spiace perché questo era un libro da finire quest’estate, con i piedi dentro la sabbia, in spiaggia. Uno di quegli Adelphi inattuali che crea spazio e silenzio, che ti allontana dal rumore assordante dell’attualità delle cose, dal lavoro all’idrante inestinguibile delle notizie e degli aggiornamenti e delle notifiche, intrecciando storie e continenti e popoli diversi. Forse appena più lento dell’optimum, esige una certa attenzione, ma direi che la ricompensa ne valga la pena. Sono sicuro che se l’avessi finito lo metterei sul podio dei miei libri dell’anno, categoria “outsider”.
Max Fox di Sergio Luzzatto
Storia incredibile quello Zelig arci-italiano che è stato Massimo De Caro: self-made man culturale, allievo carabiniere, politicante e tuttofare, bibliomane incallito e finissimo falsario di libri antichi. Luzzato non è Carrère, la sua parte indagine psicologica e letteraria (il suo lavoro da storico non lo so giudicare) mi pare fra le parti più deboli del libro, ma la storia si regge da sola sulle sue gambe, e vale la pena conoscerla.
Adelphi — Le origini di una casa editrice (1938–1994) di Anna Ferrando
Solo libri Adelphi quest’anno, in tutti i sensi. Scherzi a parte, questo libro mancava: non era mai stato pubblicato niente di paragonabile per vastità e profondità di ricerca, finora. Centinaia di note (il mio vecchio lavoro è la nota 59), una bibliografia sterminata, un lavoro d’archivio inedito ne fanno secondo me “il” testo sulle origini della casa editrice, con ampio riconoscimento del lavoro della ur-coppia Bazlen-Foà. Una roba per impallinati, ovviamente, perché è un lavoro serioso e accademico (e pure costoso), ma gli impallinati ringraziano. Ora vogliamo il sequel.
I lupi di Willoughby Chase di Joan Aiken
Libro per l’infanzia a cavallo dell’adolescenza, il chè lo rende di difficile collocazione. Atmosfere alla Dickens, non una ma ben due orfane dal cuore d’oro, ville in campagna con passaggi segreti, governanti crudeli, un mistero al centro di tutto e, ovviamente, un sacco di lupi. Da leggere davanti al caminetto mentre fuori nevica, se nevicasse da qualche parte e non ci fossero 20° a gennaio.
Buchi bianchi di Carlo Rovelli
Di Rovelli mi manca solo L’ordine del tempo, che mi dicono sia il più bello, e sinceramente credo che questo Buchi bianchi sia il più debole, fra tutti. Ma lo è, credo, by design, nel senso che Rovelli qui non racconta una storia o teoria sedimentata ma una sua ipotesi di ricerca (molto affascinante) e chissà, magari fra dieci anni vincerà il Nobel per questa scoperta e questo libro diventerà un classico della divulgazione scientifica. Senza contare che gli altri (Sette brevi lezioni di fisica, Helgoland) sono libri molto belli, per cui ogni volta l’asticella si alza. Rovelli si conferma dunque un unicum dell’editoria italiana, capace di raccontare cose difficilissime a decine di migliaia di persone, mescolando intimità e scienza in una maniera credibile che solo a lui riesce.
Sylvia di Leonard Micheals
Nella mia esplorazione della collana Fabula (sicuramente quella che conosco meno, storicamente) mi sono imbattuto in questa Sylvia, romanzo autobiografico — ma non sappiamo quanto — di una sfortunatissima storia d’amore negli anni ’60 newyorkesi. Ha fascino, Sylvia, ma lo perde abbastanza in fretta — ai miei occhi, almeno — per lasciare spazio all’orrore di una relazione pienamente disfunzionale, assurda, pienamente psicotica. C’è il sesso e c’è la droga, certamente, ma soprattutto c’è la follia, inspiegabile, ma non per questo meno dolorosa. È un libro davvero ipnotico, da questo punto di vista, non gli riesci a staccare gli occhi di dosso, come da un incidente al rallentatore.
Viviane Élisabeth Fauville di Julia Deck
Altra perla nascosta del catalogo, non sapevo neanche della sua esistenza. Invece è una storia fulminante, che inizia con un’immagine geniale — in una stanza vuota una donna nuda culla su una sedia a dondolo una bambina di pochi mesi, ha l’impressione di avere commesso qualcosa di terribile, ma non se lo ricorda — e pagina dopo pagina ripercorre la storia, con cambi di prospettiva, narratori inaffidabili, uomini schifosi. C’è la follia, ci sono i coltelli, c’è una scena di sesso tristemente indimenticabile. Bombetta.
Trilogia della città di K. di Agota Kristof
Volevo leggere questo libro da una vita, finalmente l’ho fatto, e ha soddisfatto tutte le aspettative, and then some. Un capolavoro vero e un classico moderno, che giustamente sta venendo riscoperto dalle generazioni più giovani di lettori. Non ho molte parole da spendere, quindi vi lascio con quelle di Manganelli: «Una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l’andatura di una marionetta omicida». Jeaggy e Kristof, o dell’usare la prosa come coltello.